martedì 3 novembre 2015

Something evil has come home... seconda parte


  Il brusio della TV infettò i sogni di Ethel. Sveglia e addormentata allo stesso tempo, non più nella stanza eppure in grado di avvertire il ronzio elettrico, flebile, dietro ogni cosa. Le foglie turbinavano dentro e fuori la porta. Una nuvola di fumo sollevò la testa serpentiforme e le sussurrò all’orecchio:

«Sicuro come la morte».  



Ethel è la mia preferita. Una fortuna, perché il terzo libro della serie, Astoria, è proprio incentrato su di lei.



Nel primo capitolo di Knock Knock è descritta così:



“  Il suo aspetto veniva chiamato in ballo solo quando Ethel era paragonata alla madre e, allora, la gente sospirava e diceva che era un peccato. Che peccato, dicevano, che lei non avesse gli occhi celesti della madre o i suoi capelli color del miele. Che peccato che lei non stesse dritta. Che peccato che trascinasse i piedi quando camminava. E che peccato che la sua bella mamma Shirley fosse conosciuta soprattutto per i tizi con cui si ubriacava, taglialegna o compratori di legname o agenti di passaggio che fossero. Shirley non era schizzinosa in fatto di uomini o di alcolici, ed era naturalmente dato per certo che suo marito non fosse il padre di Ethel. 



Ben presto scopriamo che l’incantesimo non ha avuto effetto e che le tre amiche si devono confrontare con la gravidanza e con la maternità. Che cosa poteva esserci di più terribile per Ethel che avere una figlia, non solo arrivata inaspettatamente e quando ormai Ethel aveva “una certa età”, ma che era l’immagine spiccicata di quella madre che l’aveva tanto fatta soffrire?



«Dorme di notte e non le piace il latte materno – disse il dottore – Si può ritenere fortunata».

         A quel punto Ethel si sentì un’ingrata. La sua bambina era perfetta e bellissima. Avrebbe dovuto festeggiare. Avrebbe dovuto vantarsi. Avrebbe dovuto scattare un milione di foto, ma non ne aveva fatta neanche una. Era Burt a registrare tutti i momenti importanti nella vita di loro figlia e a mettere le foto in un album che, però, Ethel non apriva mai.

Si era riservata del tempo per la bambina e aveva fatto sapere ai suoi clienti che non sarebbe stata disponibile per un paio di mesi. Ora però si sentiva in colpa a richiamarli invitandoli a tornare dicendo loro che sua figlia, dopo tutto, non aveva bisogno di lei. A parte le cose fondamentali, come cambiare i pannolini, dare il biberon e fare il bagnetto, era vero: sua figlia aveva a mala pena bisogno di lei.



E da qui si arriva al cuore del libro. Il modo in cui madre e figlia interagiscono è descritto in modo spettacolare, e l’inquietudine che sale dentro è assolutamente palpabile. Credo che Connie Sara sia uno di quei personaggi destinati a restare nella storia dell’horror.



L.S.: Connie Sara… Questa terribile ragazzina mi ha davvero resa inquieta. È stato difficile dar vita ad un personaggio simile?



S.P.M.: I bambini sono spesso presentati nei film e nella letteratura come canali di forze strane o soprannaturali. Nella vita vera, gli adulti proiettano su di loro le più grandi speranze e paure. I bambini sembrano avere un potenziale illimitato. Sono anche delle versioni misteriose di noi stessi. E dunque, la percezione che gli adulti hanno dei personaggi bambini è molto complessa, e io volevo analizzare questa percezione. Che cosa succede quando le paure paranoiche di una madre senza esperienza sono giustificate? E che succede quando sua figlia, Connie Sara – una figlia non voluta, arrivata nell’ultimo tentativo di liberarsi dall’influenza di sua madre – si rivela ben presto essere qualcosa di innaturale, di terrificante e di reale allo stesso tempo? In effetti, mi sono divertita molto a immaginare questa terribile creatura. Mi ha spaventata, e spero spaventi anche i lettori.



Più che mai, quando era sola con la bambina, che non dormiva mai durante il giorno, avvertiva una presenza estranea nella stanza e quando si voltava, Connie Sara era lì a guardarla. All’inizio si diceva che era naturale. Per quale motivo un neonato non avrebbe dovuto guardare in direzione della madre, sua fonte di vita, amore e nutrimento?

Presto questo atteggiamento ragionevole venne meno. Non importava dove fosse la bambina rispetto alla madre: quando Ethel si girava per controllare, Connie Sara era lì a guardarla, fissa. Non con ovvia affettuosità o gioia, non con appagamento, concluse Ethel, ma con un’espressione fredda che sanciva la sua completa inadeguatezza per quel ruolo. Stava giocando a fare la mamma senza la giusta propensione. Non era nemmeno interessata a farlo. Avrebbe fallito. Prima o poi, avrebbe mandato tutto all’aria.



Una mattina, rimasta sola in casa come sempre con la bambina, Ethel raggiunge il limite: si chiude nel ripostiglio della biancheria, spaventata dal terribile impulso di arrivare a dare un calcio alla figlia.



Era in piedi nel buio pesto, respirando a stento, con intorno il profumo delle lenzuola pulite. Fuori sembrava ci fosse una tregua, una pausa pesante, come se la bambina davvero ignorasse che lei se n’era andata. Forse non le importava. Forse questo era il modo per farla desistere dal vizio di seguirla.

            Un debole suono le arrivò dalla cucina, a metà tra un sospiro e una voce che la chiamava. Connie Sara non poteva ancora parlare a quell’età, non sapeva pronunciare neanche una parola. Ethel stava forse perdendo l’udito, o il contatto con la realtà? Avrebbe giurato di aver sentito le parole ‘ti trovo’. No. Era troppo intenta ad ascoltare, e immaginava parole vere quando invece tutto quello che riusciva a sentire era un suono che in realtà era più un’assenza di suono. Poi lo sentì davvero. Veniva verso di lei.

Al suono delle ginocchia tozze e delle mani paffute che attraversavano lievi il corridoio, Ethel si sentì serrare lo stomaco. Quella cosa stava arrivando. Perché la chiamava così? Sua figlia, la sua avventurosa bambina stava venendo a cercarla. Questo era tutto. Eppure, più il tonfo di quelle mani e di quelle ginocchia si avvicinava, più Ethel era sul punto di urlare.

Di che cosa aveva paura? Che cosa poteva davvero accaderle? Era una donna adulta, sicura in casa sua insieme a una bimba inoffensiva che l’amava. Non era forse così? Non era vero che la bambina l’amava? Non lo sapeva. Connie Sara non si girava verso di lei, non le si aggrappava o non piangeva quando Ethel lasciava la stanza.  Semplicemente, la inseguiva.

Con questi pensieri in testa, Ethel si accorse che c’era silenzio fuori dalla porta. Il suono strisciante era cessato, non si era accorta quando. Non riusciva a decidersi di aprire la porta. Era ridicolo! Doveva aprire la porta. Doveva assicurarsi che non c’era niente che non andasse. Poteva succedere di tutto quando un bambino iniziava a muoversi; avrebbe potuto arrampicarsi su un mobile e cadere. O trovare uno spillo o una puntina sul pavimento e metterseli in bocca. Con un fremito di disgusto per se stessa, Ethel si rese conto che per un attimo aveva provato sollievo al pensiero di queste cose. E capì anche che non poteva rimanere nel ripostiglio della biancheria fino a che Burt non fosse tornato.

Con più rassegnazione che coraggio, afferrò il pomello della porta e lo girò. Si forzò ad aprire la porta e a guardare in basso. Connie Sara era lì, e incontrò il suo sguardo senza un sorriso e senza emettere alcun suono.

Con fare brusco Ethel afferrò la bambina, la prese in braccio e la portò nel suo lettino. La mise sulla schiena, poi tirò su la sbarra laterale chiudendola con la sicura.

«Resta qui», disse, notando che la sua voce si era abbassata a un sussurro rauco.

«Resta».

Guardò Connie Sara in faccia. Nessuna espressione, niente della gioia che aveva visto nei bambini degli altri alle prime parole pronunciate.

«Che cosa hai detto?»

Ora la bambina stava zitta. Non avrebbe parlato di nuovo, sempre che lo avesse mai fatto. Ethel andò in cucina a preparare una camomilla per distendere i nervi.

Che cosa avrebbe pensato la gente di una madre che aveva paura della propria bambina? Come poteva descrivere l’oscura soddisfazione carica di odio negli occhi della figlia, o il suo volto ostinatamente vuoto? Sembrava assurdo dire che sua figlia le stesse addosso. Non era forse così?

«Addosso», disse Ethel, e arrossì.


Connie Sara cresce e sviluppa un talento speciale nel seviziare gli animali. Ben presto però, inizia ad andare oltre. Connie Sara comincia a essere considerata pericolosa a scuola, e i genitori sono costretti a tenerla a casa. Non prima, però, di aver dato prova di quel suo talento innato.



Winston è un bambino dai capelli rossi, un fragile bersaglio di quelli più svegli. È spesso messo in imbarazzo dalla mamma, che lo chiama davanti a tutti ‘Winnie’. Ma quel giorno Winston decide che ha voglia di una piccola rivincita… sui bambini che lo prendono in giro, su sua madre che lo soffoca con le sue premure eccessive… Pur di entrare nelle grazie di Connie Sara, è disposto a tutto.



«Non ci credo alla storia della strega».

«Mi stai dando della bugiarda?», chiese Connie Sara.

Winston considerò la gravità di quell’accusa, e disse:

«No, ma sto dicendo che potresti esserti sbagliata. Potresti pensare che ci sia una strega, e lei potrebbe non esserci. A volte è difficile saperlo».

Sedevano sotto una precaria luce a fluorescenza nella cucina dei Sander, disegnando con i pennarelli su del cartoncino. Il rumore del padre di Connie Sara che russava forte nella camera da letto, in fondo al corridoio, spaventò Winston. La madre era al supermercato. Connie Sara gli si avvicinò e bisbigliò:

«Sei proprio un bambino. Non c’è da stupirsi che tua madre ti chiami Winnie. Non m’importa se ci credi. C’è una strega nel bosco, e tiene qualcuno nella cella sotterranea che picchia e punzecchia con un ramo. A mezzanotte, se passi da quelle parti, puoi sentire la voce di una povera bambina che chiama la mamma. Ma a te non importa. Non importa a nessuno».

Winston rimase con le braccia conserte e fissò Connie Sara in quei suoi occhi celesti. Aveva paura di quello che aveva detto, ma lo spaventava ancor di più quello che avrebbe potuto dire di lui ai ragazzi che conosceva a scuola. Lo prendevano in giro perché era stato ritirato per un anno. Dicevano che era tardo di mente, ma la verità era che sua madre pensava avesse bisogno di un anno in più per maturare. A quei ragazzi, però, non importava il motivo. Ogni pretesto era buono per prenderlo in giro. Troy, in particolare, che considerava Winston un piagnucolone e che a volte lo seguiva fino a casa, tirandogli sassi dietro alle gambe.

[…]

«Insomma mi credi?»

«Non so… – disse. Aveva bisogno di più tempo per pensarci su – E dove vivrebbe questa strega?»

«Da nessuna parte – rispose Connie Sara – In nessun posto che la maggior parte della gente possa vedere. La sua casa è pitturata come il bosco, quindi è invisibile. Ecco perché nessun altro lo sa».

[…]

«Come fa ad avere una cella sotterranea se non c’è nessuna casa?»

Winston era soddisfatto di quella domanda. Incrociò le braccia di nuovo.

«Non ho detto che la casa non c’è. Ho detto che è invisibile. Il sotterraneo è nascosto sotto terra – gli disse – e la ragazzina è vera. Puoi sentirla piangere a notte fonda».

«Bene – stava considerando la cosa. Deglutì e ci pensò su ancora – Chi credi possa essere quella ragazzina? Chi tiene nella cella sotterranea, quella strega?»

Connie Sara si alzò in piedi e chiuse la porta della cucina. Il rumore del padre che russava svanì. Chiudendo la porta, un leggero cambiamento nella pressione dell’aria smorzò le loro voci. Connie Sara si mise seduta, si appoggiò con le mani giunte sul piano del tavolo e disse:

«Tiene la piccola Tracy giù nel sotterraneo».

A quel nome, Winston provò una vampata di ghiaccio. Tracy Carson era sparita da quasi un anno. Si era persa tornando a casa da scuola.



Connie Sara riesce a convincere Winston ad andare a cercare Tracy. Si accordano sul giorno e sull’ora – di notte naturalmente – e s’incontrano nel bosco. Winston fantastica di salvare quella bambina e di riportarla a casa sana e salva, di essere accolto come un eroe, di essere intervistato da tutte le televisioni, e di riscattarsi finalmente agli occhi dei suoi compagni di scuola. Ma…



«Shhh! – lo riprese – Da quella parte», bisbigliò, e fece un cenno verso il bosco. «Quella è la direzione che dobbiamo prendere per tenerci lontani dalle trappole per animali».

«Trappole?»

«Shhh!»

Connie Sara smise di parlare, indicò soltanto la via con la sua torcia elettrica e lo spinse avanti.

[…]

Quando era già un po’ che camminavano, Winston cominciò ad avere la sensazione di girare in tondo, ma non poteva provarlo. Avrebbe voluto avere con sé la bussola di suo papà. Voleva dirlo a Connie Sara, ma poi pensò: forse questo era parte del suo piano per arrivare di soppiatto dalla strega. O forse era una prova per lui.

Se esitava per più di un secondo, la punta aguzza dell’indice di Connie Sara si conficcava tra le sue scapole fino a che non si fosse mosso. Era senza fiato, e la sua camicia gli si era appiccicata addosso per il sudore quando, dopo ripetute pungolature, giunsero ad una radura.

«Eccoci qui», bisbigliò.

Winston aprì la federa del cuscino e tirò fuori la corda, sottile e ruvida. L’aveva sgraffignata dal garage di suo padre, dove era appesa a un chiodo da prima che riuscisse a ricordare, e non pensava che l’avrebbero cercata prima che Tracy fosse stata liberata e lui fosse ritornato trionfante. Si accorse solo in quel momento, però, che la corda era logora in un punto, quasi strappata, e si maledisse per non averla controllata con più attenzione prima di infilarla dentro la federa ancora arrotolata.

Connie Sara spostò le foglie e i ramoscelli dal terreno finché Winston non fu in grado di vedere una sottile lastra di legno screziato, così verde e coperta di muschio da sembrare parte del sottobosco. Tirò su uno spigolo e fece cenno a Winston di fare lo stesso. Sollevarono di lato la lastra svelando un profondo buco nero nel terreno, stretto e impenetrabile. L’aria intorno a loro si caricò all’istante di due sensazioni: un freddo gelido e un fetore così immondo che Winston lasciò cadere la torcia e si coprì la bocca e il naso con entrambe le mani.

«Aaahh – gemette attraverso le dita che premevano contro il viso, come una museruola – Che cos’è? È terribile!»

Si strinse il naso cercando di non vomitare. Connie Sara lo guardava attentamente. Non sembrava essere disturbata da quell’odore fetido che scaturiva dal buco nel terreno, e cercò di levargli le mani dalla faccia. Winston riuscì a inspirare solo una volta prima che una corrente di nausea lo attraversasse. Si coprì il viso con una mano e rimase ritto, tremante nell’aria di mezzanotte.

«Da dove viene?» mormorò.

«C’era un bagno esterno qui» gli spiegò.

«Pensavo saremmo andati alla casa della strega» le disse.

«Ho detto che avremmo tirato Tracy fuori dalla cella sotterranea, no?».

«Dov’è la casa?»

«A un paio di miglia. Niente più alberi lì, e una volta c’era pure una villetta con un tetto di cedro. Ma è stata data alle fiamme».

Gli occhi di Winston bruciarono e dovette sbattere le palpebre.

«Chi l’ha data alle fiamme?»

Stava cercando di parlare normalmente, senza tremare. Lo sforzo gli inchiodava le ginocchia e il collo. Aveva paura perché c’era un buco nel terreno e perché era così lontano da casa, e anche perché ora ricordava che Connie Sara aveva detto che la casa della strega era invisibile, non che era stata bruciata.

«Chi l’ha bruciata?» chiese di nuovo.

Connie Sara sorrise.

«Io l’ho fatto» gli rispose.

Winston studiò il suo volto.

«Io gli ho dato fuoco» disse. Rise appena.

Winston si accorse di non riuscire a muoversi. Provò allora con l’unica domanda che poteva avere un senso per lui.

«Lo hai fatto per uccidere la strega?» chiese.

Inspirava aria in corte raffiche tra le dita, ma era un’agonia respirare nel tanfo proveniente da sottoterra. Connie Sara stava puntando la sua torcia verso il buco. Si era appoggiata la corda arrotolata sulla spalla. Stava ferma e lo guardava. In attesa.

«Va avanti – disse – dai un’occhiata. Vai più vicino, così puoi sentire Tracy.

Il freddo, le nuvole che oscuravano la luna, l’assalto dell’aria putrida dalla vecchia latrina si combinarono per farlo tremare così forte che i suoi denti produssero un suono martellante, simile a quello cha fa un picchio.



Winston è impaurito, ha freddo, vuole questa storia finisca il prima possibile. Decide allora di tagliare corto e guardare meglio in quel buco così terrificante e fetido.



Winston potè vedere più chiaramente. C’era un rialzo più grande, incrostato di fango e melma. Gli ricordava un topo mezzo digerito che aveva visto il giorno in cui suo zio tagliò in due un serpente dopo averlo ucciso nel cortile.

Aveva la spiacevole sensazione di fissare una grande bocca aperta, e quel rialzo era la sua lingua. Raggiunse allora la sua punta, vicino alla superficie. Rovesciata in alto, in una smorfia di dolore, c’era la faccia putrefatta di una ragazzina.

Winston udì se stesso urlare. La torcià creò un ampio arco d’ambra nell’aria per poi smorzarsi quando il sottobosco l’ebbe ingoiata. Winston fece un passo indietro allontanandosi dal buco e da quel corpo marcio, viscido di sudiciume e di vermi. Urtò però contro Connie Sara, e sentì la pressione appuntita delle sue dita contro la sua schiena, che lo costringevano avanti, spingendolo verso il buco spalancato e il corpo putrefatto della piccola Tracy. Le sue mani lo afferarono per le spalle e lo obbligarono verso il basso.



Ora, forse immaginiamo tutti cosa accadrà a Winston. Ma l’aspetto terribile e affascinante allo stesso tempo è come tutto ciò venga descritto, come la prosa di S.P. Miskowski riesca a coinvolgerci. Io avevo il cuore in gola.



Suscitare paura nel lettore, o comunque uno stato di agitazione palpabile, non è cosa da poco, anzi. Ogni piccolo elemento è essenziale per riuscire in questo intento, non si può esagerare né lesinare, né cedere allo splatter, soprattutto. E questo equilibrio è perfettamente raggiunto in Knock Knock.



Il libro naturalmente prosegue, con svolte e intrecci narrativi complessi e avvincenti, e giunge a una conclusione molto cupa, in grado però di soddisfare il lettore, arrivato sin qui trafelato.



Il peso delle conseguenze delle sue azioni spinge Marietta al sacrificio, ma questo servirà a porre fine al male?



Prima di giungere alla conclusione, incontriamo un altro personaggio femminile molto bello e, anche nel suo caso, restiamo avvinti dalla storia della sua vita, dal modo in cui questa è narrata e dai suoi pensieri. Lydia è la figlia di Beverly, figlia avuta in giovanissima età e data subito in adozione. Arriverà anche lei a Skillute, erede di una casa teatro della morte della madre di cui, fino a quel momento, ignorava l’esistenza.



Bellissima poi la descrizione, seppur breve, del malinconico Pastore Colquitt (figlio di Marietta, molto importante…), di cui ancora sappiamo poco, ma che già per il fatto di assomigliare incredibilmente a Stephen King – parole di Lydia! – ci fa venire voglia di saperne di più. Be’, non resteremo delusi, perché nel capitolo conclusivo del ciclo, nell’ultimo libro In the light (2014), lui e sua moglie avranno un ruolo importante.



Prima di passare alle domande finali, vorrei chiedere a S.P. Miskowski qual è la sua fonte di creatività e come funziona il suo processo creativo.



S.P.M.: Non c’è una vera spiegazione all’urgenza creativa di ogni singola persona. Creare storie, narrare, è nato in me in modo naturale e precoce. Quando avevo tre anni, scarabocchiavo una lingua del tutto personale e inventata prima ancora di saper leggere e scrivere. Mia sorella mi ha insegnato a leggere, e l’inglese ha sostituito i cerchietti e le righe con cui riempivo i miei quaderni. Ho avuto molti lavori in diversi settori. Ho cambiato mezzo e approccio. Ma non ho mai smesso di scrivere.



Quando ho un’idea per una storia, cerco di metterla giù nel modo più completo possibile. Traccio l’arco della storia, creo la struttura mentre procedo, e salto le parti che non sono ancora chiare. Alcuni dettagli sono chiari sin dall’inizio, altri saranno completati in seguito. Poi raccolgo tutte le ricerche e il materiale di riferimento di cui ho bisogno, in modo da coprire più temi possibili all’interno della storia. In alcuni casi leggo questi libri di riferimento per intero, in altri seleziono qua e là. Do uno sguardo all’arte, leggo storie e vedo film, e tutto ciò è in qualche modo collegato.



Continuo a rivedere la storia fino a che non ha più bisogno di me. Poi la faccio leggere ad alcuni amici fidati, scrittori e editori. Loro mi fanno i loro appunti, io rivedo nuovamente la storia. Loro leggono di nuovo, e io di nuovo revisiono. Poi propongo la storia all’editore di una rivista o di un’antologia.



L.S.: Il ciclo di Skillute si conclude con In the light, pubblicato l’anno scorso. So che il 2016 vedrà la pubblicazione del romanzo breve, Muscadines, per la Dunhams Manor Press, etichetta molto interessante perché pubblica letteratura weird  unica e originale in tiratura limitata. Puoi anticiparci qualcosa su questo lavoro e magari su altri progetti futuri?



S.P.M.: Muscadines uscirà nel 2016, edito con copertina rigida e illustrato da Dave Felton. Sono davvero felice che il mio libro sia stato incluso nelle serie della Dunhams Manor Press. Credo che Muscadines possa suscitare qualche bell’incubo nei lettori.



Ambientato negli anni Sessanta nel sud degli Stati Uniti, il libro si apre con il ritorno di un personaggio femminile dopo anni di lontananza. La donna ha una sorella e le due si stuzzicano bonariamente a vicenda, ma poi il loro scontro diviene più serio. Le loro vite da adulte sono state costruite apposta per proteggere i segreti della madre ormai morta. E dovrai leggere il libro fino alla fine per scoprire quali segreti. Ti assicuro che sono davvero inquietanti.



A breve uscirà anche un mio chapbook per la Dim Shores Press. Ci saranno presto news in proposito da parte dell’editore. E alcune mie storie saranno pubblicate anche in Cassilda’s Song edito da Joe Pulver, The Hyde Hotel edito da James Everington, e Sisterhood (un’antologia su culti religiosi femminili), edito invece da Nate Pedersen.



L.S.: C’è qualche scrittore in particolare, sia mainstream che indipendente, che apprezzi e che ti piacerebbe consigliarci?



S.P.M.: Se vi piacciono storie scritte meravigliosamente, piene di atmosfera, profondità psicologica, e un tocco di weird, vi consiglio Lynda E. Rucker, The Moon Will Look Strange,  e Steve Duffy, The Moment of Panic.





Ringrazio S.P. Miskowski per la sua disponibilità e per la sua grande professionalità. È stato davvero un piacere entrare in contatto con lei, e sarei davvero orgogliosa di tradurre e veder pubblicato Knock Kncok (ma non solo!) anche in Italia. Non lasciamoci sfuggire questa talentuosa scrittrice. E a chi volesse seguirla anche in rete consiglio di visitare il suo blog, Daughters of Catastrophe, così da essere aggiornati sulle sue ultime pubblicazioni.



Grazie anche a voi di aver letto sin qui. Fatemi sapere che cosa ne pensate lasciando un vostro commento.


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