Anne-Sylvie
Salzman occupa una posizione molto peculiare all’interno del mondo editoriale,
perché in lei si concentrano più figure professionali: fondatrice e
co-direttrice di Le Visage Vert, rivista letteraria e piccola casa editrice di
narrativa soprannaturale; traduttrice dall’inglese al francese (finora ha
tradotto più di 80 libri); scrittrice (di romanzi come Au
bord d’un lent fleuve noir, Sommeil e
Dernières nouvelles d’Œsthrénie, e due raccolte di racconti, Lamont e Vivre sauvage dans
les villes) e autrice tradotta (in Inghilterra dalla Tartarus Press,
in Italia dalle Edizioni Hypnos). Tante diverse sfaccettature che consentono ad
Anne-Sylvie Salzman di avere di questa realtà una visione più che mai ampia.
Ecco
l’intervista rilasciatami in occasione di Stranimondi 2017.
Com’è iniziata la tua esperienza in questo settore? E qual è
il ruolo in cui ti senti più a tuo agio?
Ho
iniziato a scrivere diverso tempo fa, come molti, buttando giù sconclusionati
romanzi semi-psicologici. Poi, da poco compiuti i vent’anni, dato il mio
interesse nella narrativa e nella letteratura di genere, ebbi un incontro
importantissimo con Xavier Legrand-Ferronnière, che all’epoca era un promotore
alternativo di letteratura fantastica e weird
nel mondo delle fanzines. Diventammo buoni
amici e lui raccolse intorno a sé molte persone interessate all’ambito, come ad
esempio l’ottima traduttrice dal tedesco Elisabeth Willenz (che aveva scritto
la sua tesi di dottorato su Gustav Meyrink, al quale dobbiamo il nome Le Visage vert, il trimestrale poi lanciato da
Xavier). All’epoca leggevo autori vittoriani, avevo in mente qualcosa che fosse
più legato al genere o al thriller, qualcosa di simile, e naturalmente che
fosse legato alla letteratura fantastica, ma incontrare queste persone fu
davvero il punto di partenza di un interesse ancor più grande per questo tipo
di letteratura. Forse alla fine avrei comunque raggiunto questo punto, ma
quegli incontri sono stati quasi un acceleratore, in un certo senso, e così ho
iniziato anche a scrivere questo tipo di cose.
Prima
di dedicarmi alla traduzione, scrivevo romanzi amorfi e noiosi. Non so se
tradurre abbia avuto un ruolo nel miglioramento dei miei romanzi, ma questo è
quel che è accaduto. La lettura era altrettanto importante e inoltre per un
periodo ho recensito letteratura inglese e nordica per un mensile letterario
francese, e anche questo suppongo mi abbia insegnato alcune cose. Il lavoro
redazionale è venuto per ultimo.
Scrivere
/ tradurre / revisionare: sono cose molto diverse. Tradurre è più un mestiere
per me, il lavoro redazionale è un lavoro di squadra, e scrivere è un processo
piuttosto connaturato e quasi involontario (be’, questo può essere un po’
eccessivo, eppure…). Ma non riesco a concepirli davvero come ruoli o compiti.
Ho lavorato alcuni anni come PR e copywriter per diverse aziende. Ecco: quello
era svolgere un ruolo.
Edizioni Hypnos presenta qui a Stranimondi in un’unica edizione la traduzione italiana delle tue due
raccolte di racconti, con il titolo Lacerazioni, tradotto da Barbra Bucci e Elena Furlan.
Artwork by Ivo Torello |
Questi racconti affrontano i conflitti interiori dei loro
personaggi, esplorano le loro fragilità, il disfarsi di una realtà circostante,
per condurci all’interno di un mondo visionario a metà tra follia e istinto. Si
avverte profonda anche un’altra “lacerazione”, quella tra corpo (che spesso
sanguina, che già diviene carcassa) e anima. Spetta poi al lettore il lavoro
interpretativo delle suggestioni che ricava dalla lettura, anche se, come
accade nelle migliori tradizioni, “In the end it is the mystery that lasts, and
not the explanation”.
Anzitutto è giusta la mia lettura?
Certo,
ogni lettura è corretta. La maggior parte di queste storie è anche piuttosto
istintiva nel modo in cui è scritta. Ciascuna inizia sempre con un piccolo
evento, un evento vero, aggiungerei. La prima storia che ho composto s’intitola
Meannanaich, termine gaelico che indica il
suono bizzarro delle ali del beccaccino quando compie la sua danza di
corteggiamento. Il suo significato ha a che fare naturalmente con la storia, e
lascio al lettore la scoperta di cosa sia, in ogni caso è stata il mio primo
racconto breve (avevo scritto dei romanzi prima).
La
storia mi è venuta in mente a seguito di qualcosa che avevo visto in Scozia. Si
trattava davvero dell’inizio del processo immaginifico, che è pressoché
inconscio, e dopo un po’ ho cominciato a dirmi: Ha forse
a che fare con la cosa che ho visto? E si era fuso sia con il fatto
del beccaccino, che mi era stato spiegato da un amico scozzese, sia con una
passeggiata con lo stesso amico, che avevo fatto lungo la spiaggia in una
serata davvero strana. E improvvisamente tutto questo aveva creato la
condizione per il nascere della storia. Tutte le storie contenute in Lacerazioni hanno infatti il loro inizio nella
realtà, e questa realtà viene poi abbracciata dall’immaginazione, e
l’immaginazione inizia a creare cose intorno ad essa e si arriva ad un punto
tale che diviene naturale per me farne una storia. Un po’ come il piccolo corpo
estraneo che fa sì che l’ostrica produca una perla. Come se l’intero corpo
della scrittrice, e non solo il cervello, fosse coinvolto nel processo di
creazione della storia. In realtà, la maggior parte delle storie contiene anche
una specie di… non ossessione, ma un filo conduttore forte riguardo al corpo:
le parti del corpo, l’invasione del corpo, la deformazione del corpo. Forse è
collegato al modo in cui penso di creare queste storie, nel mio corpo.
Un momento della presentazione a Stranimondi, insieme all'interprete Selene Verri. |
Possiamo dire che tu segua un istinto creativo quando scrivi
più che un modello.
Sì,
direi così. Se nulla accade, non scrivo. Ad esempio, non scrivo un racconto da
due anni perché non è accaduto nulla di nuovo che potesse diventare una storia
nel mio cervello.
Mi è piaciuto moltissimo il racconto Shioge, che ora mi
viene subito in mente.
Sì,
questo di nuovo è legato ad alcuni eventi “reali”. Ho visto qualcosa in Scozia,
poi è accaduto un altro fatto, non in Scozia ma nella campagna francese. Quel
tipo di cose di cui non sai se essere sicura. Ero in macchina con un amico,
viaggiavamo lungo boschi e campi, e ad un certo punto abbiamo visto un po’ di
persone intorno a delle pecore che sembravano molto malate. Era tutto così
bizzarro perché molte di queste pecore sembravano chiaramente affette da
qualche epidemia. Ma non abbiamo letto nulla in proposito sui giornali dopo.
Dunque non eravamo certi di quel che avevamo visto. Però credo che si trattasse
davvero di un’epidemia. Di nuovo: questo fatto è maturato in una storia su un
pastore e le sue pecore, Shioge.
Questa malattia è solo nella mente del protagonista, e lui la
rende reale.
Sì,
anche, ma forse la malattia è vera. Non lo so. In ogni caso il lettore ha
ragione, io do soltanto qualcosa da leggere, poi il lettore può pensare quello
che vuole. E questo è anche il modo in cui io stessa leggo.
Pur nella grande varietà di ambientazioni, personaggi, toni, è
possibile rintracciare nei tuoi racconti dei motivi e temi comuni, degli
aspetti che ricorrono con forza, sia fisici che interiori, come ad esempio gli occhi
(che consentono da un lato il “materializzarsi” all’esterno di pensieri, sogni,
incubi, mostri, dall’altro, permettono di “trovare la strada”, entrare in
contatto con altre anime, spiriti, mondi); la dimensione onirica e immaginifica
e, legata a questa, la follia; l’interno che diviene esterno;
l’incomunicabilità; la solitudine; la maternità, l’animalità selvaggia.
In che rapporto stanno questi motivi e temi con i personaggi
dei tuoi racconti e come interagiscono tra loro?
Non
saprei dirlo, perché, di nuovo, c’è molta istintività nel mio processo
compositivo, dunque non lo so. Credo che si cerchi quel che si vuole cercare,
in un certo senso. Se sei interessato, come lo sono io, agli “occhi” come
figura – ho un’ossessione per gli occhi più di quanto non la abbiano altre
persone – allora il lavoro del mio inconscio e del mio cervello mi fa vedere
occhi tutto il tempo nelle mie storie anche se non li voglio. Ad esempio, sto
pensando a due storie “gemelle”, Memorie dell’occhio e
La mano veggente: queste due storie parlano
del mio trisavolo vero, e quest’uomo, guarda caso, era un fabbricante di occhi
artificiali.
C’era
un segreto intorno a quest’uomo, che la mia famiglia ha scoperto soltanto
qualche anno fa. Quest’uomo uccise la moglie e due dei suoi figli. La sua
piccolina, l’unica a sopravvivere, non ne seppe mai nulla, perché al tempo
degli omicidi aveva sei mesi, e la famiglia l’aveva portata lontano, in
Corsica, il padre era originario di lì. Venne portata in un convento e là
nessuno le disse cosa era accaduto alla sua famiglia. Le dissero solo che la
madre era morta quando lei nacque e che suo padre era morto qualche anno dopo
per il troppo bere. Non ha mai saputo di aver avuto dei fratelli, né che suo
padre avesse ucciso tutti tranne lei.
Forse
qualcuno dirà che c’è una parte del cervello della bambina che ha ricordato, e
così quella conoscenza della storia è stata trasmessa a diverse persone nella
famiglia ed ecco spiegato il mio interesse in cose terribili, nell’orrore,
negli occhi… chi può saperlo? Questa è una di quelle coincidenze molto
disturbanti, e le mie storie ne sono piene.
Stai lavorando su qualche nuovo progetto come autrice?
Sì,
sto lavorando a due cose: una è un romanzo che immagino di scrivere da anni, ma
è un processo molto lento, sono riuscita a scrivere la prima parte, ora devo
scrivere la seconda e la terza e poi, a un tratto, mi sono accorta che alcune
cose che stavo facendo al di fuori da questo progetto potevano rientrare anche
nel romanzo, così sarà un romanzo in quattro parti. Non so esattamente che tipo
di struttura avrà. Al momento sembra davvero che io sia in una cucina con molto
pentole che bollono, e a un certo punto dovrò mescolare tutto insieme. Forse
sarà un’enorme catastrofe, o forse qualcosa d’interessante.
Sto
scrivendo anche un altro romanzo con un amico, lo scrittore William Charlton [che ha tradotto Darkscapes].
Abbiamo già scritto una storia di fantasmi insieme, Double.
Ora siamo orientati verso qualcosa che è più simile a un horror cosmico.
È difficile scrivere insieme a un altro scrittore?
Non
con lui perché siamo simili ma anche molto diversi. Scriviamo in modo
completamente differente e questo lo rende più semplice. Se fossimo stati un
po’ più simili, probabilmente sarebbe stato più noioso, più difficile, ci
saremmo magari messi in competizione. Lui scrive molto, insegna Filosofia, ha
molti interessi, è un narratore molto bravo, ha orecchio per i dialoghi, ne
scrive di molto divertenti, diciamo che è molto dotato nel “settore del
divertimento”. Siamo una specie di scrittori complementari. Anche lui scrive
racconti, pubblicati dalla Tartarus Press.
Questi
sono i due progetti. In realtà ce n’è un altro, un racconto horror breve e
leggermente sopra le righe. Non so come gestire tutto allo stesso tempo, ma
devo fare tutte queste cose. È passato molto tempo da quando ho completato
qualcosa, quindi questa è la giusta direzione per tornare in campo.
Come traduttrice utilizzi un altro nome, Anne-Sylvie Homassel.
C’è un motivo particolare nel sottolineare questa distinzione
professionale con una distinzione onomastica?
Anne-Sylvie
Homassel è il mio vero nome. Sì, credo di aver voluto fare una distinzione tra
le due me, la scrittrice e la traduttrice. Non volevo però che la distinzione
fosse troppo ampia, e infatti “Salzman” è la traduzione di “Homassel”; non so
se sia davvero così, l’origine del nome è oscura, “Saltman” è una sorte di
falsa etimologia. Descrive però l’alterità, ideale quando penso a me come
scrittrice. Sono la stessa persona ma leggermente diversa, quindi va bene avere
nomi leggermente diversi.
Quanta parte hanno avuto nella tua formazione come autrice le
tue traduzioni di autori quali Mary Shelley, Lord Dunsany, Fritz Leiber, Arthur
Machen, Robert Louis Stevenson, H.G. Wells, Wilkie Collins, Jack London, Oliver
Onions e Thomas Ligotti, per citarne solo alcuni?
Enorme,
credo. Probabilmente le prime, la prima traduzione è forse la più importante di
tutte le altre.
La prima è stata quella di Fritz Leiber?
La
prima, la vera prima traduzione non è stata quella di Fritz Leiber (ma la sua è
stata la prima traduzione di narrativa pubblicata). Prima ho tradotto un saggio
filosofico, che è stato la mia prima vera traduzione, di George Berkeley, uno
scrittore davvero raffinato, estremamente interessante, e connesso anche con la
visione e con l’“occhio”. Un’altra coincidenza interessante.
Poi
ho tradotto un altro autore che non è nella lista: Max Beerbohm, che potrebbe
essere quasi un modello, il suo inglese è terribilmente sofisticato, arguto e
allo stesso tempo così preciso. Naturalmente, gli autori che traduci ti
insegnano anche dei trucchi, che puoi applicare o meno, ma comunque ti nutrono.
Se traduci tanto, a volte non avverti molto il bisogno di scrivere, e questo
può essere un po’ pericoloso. Se fai entrambe le cose, scrivere e tradurre,
devi bilanciare le due attività. Non lasciare troppo che gli scrittori che stai
traducendo ti invadano, prova ad imparare da loro e cerca di esser loro fedele,
così come a te stesso. Naturalmente impari anche da chi scrive nella tua stessa
lingua.
A volte diviene difficile ascoltare la propria voce?
Forse
hai meno energie per la tua scrittura, ecco perché devi bilanciare e, di tanto
in tanto, devi fermarti. Devo smettere di tradurre cose che mi coinvolgono e
fare magari una traduzione più leggera, una traduzione che non sia troppo
difficile o magari un saggio invece che narrativa. Ad ogni modo nel complesso è
sempre andato tutto bene. I vantaggi sono davvero maggiori rispetto agli
svantaggi. Penso di aver imparato moltissimo, ad esempio, da Lord Dunsany, o da
Beerbohm, anche nel modo in cui narrare. Tutti questi autori sono narratori. Ma
naturalmente apprendi molto anche come lettore. Leggere libri rimane il modo
migliore di mantenere la tua lingua, non necessariamente la tua immaginazione
nel modo in cui ho descritto il processo immaginifico. Molto semplicemente:
leggere e tradurre ti insegnano come usare le parole.
Hai tradotto molte opere appartenenti alla letteratura
fantastica in lingua inglese. Qual è la situazione attuale invece in Francia
per quel che riguarda questo ambito? Vi è come in Italia una vivace
nicchia – seppur con le sue difficoltà – come ad esempio mostra questo
evento?
Sì,
ne ho parlato con un bel po’ di gente qui. Spero che il fantastico e il weird siano ora tornati più in campo. La Francia
era un paese in cui la letteratura fantastica, la narrazione fantastica, era
molto forte (Maupassant, Erckmann-Chatrian, Nodier, Nerval, Alexandre Dumas,
Gautier, e anche molte donne erano del settore, anche attraverso il Simbolismo,
la musica, la pittura). D’improvviso si ha quest’atmosfera estremamente
nutritiva per la letteratura fantastica. E si ha l’impressione che tutto
svanisca dopo la Prima guerra mondiale, non proprio svanito ma retrocesso a
nicchia. Questa realtà ha abbandonato l’ambito letterario, è stata espulsa
dalla letteratura mainstream ed è divenuta
una nicchia, fondendosi inoltre con lo sviluppo dell’horror americano.
All’improvviso
senti dire: “È roba straniera, è commerciale, non è letteratura di qualità”.
Questa è la situazione con cui avevamo a che fare dagli anni Sessanta in poi,
la letteratura fantastica era piuttosto marginalizzata, ed era apparentemente
cattiva letteratura. Penso però che anche allora fosse buona letteratura, è
ancora buona letteratura. Si trattava solo di un modo in cui le case editrici o
il pubblico in generale o i critici letterari volevano organizzare il settore.
Abbiamo ancora un po’ di quella distinzione, così abbiamo la grande littérature, o letteratura mainstream, che non è necessariamente così grande,
e abbiamo il genre, ma non è neanche compreso
come tale. Ad esempio, uno degli autori che vende di più in Francia è uno
scrittore di letteratura fantastica, Bernard
Werber. Qualcuno potrebbe dire: “Sì, ma è letteratura commerciale.
Puoi farci il nome di un bravo scrittore francese specializzato in fantastico o
weird?” Ce ne sono diversi. Qualcuno come Antoine
Volodine, che si ritiene sia mainstream,
proviene dalla science-fiction e quel che
scrive è fantastico in sé, ha creato questo mondo tutto suo del post-esotismo,
inventando questo concetto perché non vuole essere compreso all’interno di un
genere limitato e così ha creato un genere di cui è l’unico rappresentante. È
uno dei migliori scrittori che abbiamo. C’è anche Céline Minard, che può muoversi all’interno di generi
diversi, è un’amante del fantastico e sa scrivere narrativa fantastica. Ci sono
anche molti giovani scrittori, ora mi viene in mente Romain Verger, che potresti far rientrare nel mainstream ma che per argomenti e per il modo in
cui scrivono appartengono invece al fantastico o al weird.
Il pubblico non ha mai fatto troppa distinzione, e il mondo
dell’editoria sta riflettendo su questo aspetto e sta rendendo il fantastico e
il weird non così estraneo. Penso che stiamo
tornando a una situazione più interessante, dove ancora abbiamo nicchie, ma i
limiti tra di esse sono un po’ più vaghi.
Grazie ancora a Anne-Sylvie
Salzman!
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