giovedì 7 dicembre 2017

Intervista ad Anne-Sylvie Salzman


Anne-Sylvie Salzman occupa una posizione molto peculiare all’interno del mondo editoriale, perché in lei si concentrano più figure professionali: fondatrice e co-direttrice di Le Visage Vert, rivista letteraria e piccola casa editrice di narrativa soprannaturale; traduttrice dall’inglese al francese (finora ha tradotto più di 80 libri); scrittrice (di romanzi come Au bord d’un lent fleuve noir, Sommeil e Dernières nouvelles d’Œsthrénie, e due raccolte di racconti, Lamont e Vivre sauvage dans les villes) e autrice tradotta (in Inghilterra dalla Tartarus Press, in Italia dalle Edizioni Hypnos). Tante diverse sfaccettature che consentono ad Anne-Sylvie Salzman di avere di questa realtà una visione più che mai ampia.

Ecco l’intervista rilasciatami in occasione di Stranimondi 2017.




Com’è iniziata la tua esperienza in questo settore? E qual è il ruolo in cui ti senti più a tuo agio?

Ho iniziato a scrivere diverso tempo fa, come molti, buttando giù sconclusionati romanzi semi-psicologici. Poi, da poco compiuti i vent’anni, dato il mio interesse nella narrativa e nella letteratura di genere, ebbi un incontro importantissimo con Xavier Legrand-Ferronnière, che all’epoca era un promotore alternativo di letteratura fantastica e weird nel mondo delle fanzines. Diventammo buoni amici e lui raccolse intorno a sé molte persone interessate all’ambito, come ad esempio l’ottima traduttrice dal tedesco Elisabeth Willenz (che aveva scritto la sua tesi di dottorato su Gustav Meyrink, al quale dobbiamo il nome Le Visage vert, il trimestrale poi lanciato da Xavier). All’epoca leggevo autori vittoriani, avevo in mente qualcosa che fosse più legato al genere o al thriller, qualcosa di simile, e naturalmente che fosse legato alla letteratura fantastica, ma incontrare queste persone fu davvero il punto di partenza di un interesse ancor più grande per questo tipo di letteratura. Forse alla fine avrei comunque raggiunto questo punto, ma quegli incontri sono stati quasi un acceleratore, in un certo senso, e così ho iniziato anche a scrivere questo tipo di cose.

Prima di dedicarmi alla traduzione, scrivevo romanzi amorfi e noiosi. Non so se tradurre abbia avuto un ruolo nel miglioramento dei miei romanzi, ma questo è quel che è accaduto. La lettura era altrettanto importante e inoltre per un periodo ho recensito letteratura inglese e nordica per un mensile letterario francese, e anche questo suppongo mi abbia insegnato alcune cose. Il lavoro redazionale è venuto per ultimo.

Scrivere / tradurre / revisionare: sono cose molto diverse. Tradurre è più un mestiere per me, il lavoro redazionale è un lavoro di squadra, e scrivere è un processo piuttosto connaturato e quasi involontario (be’, questo può essere un po’ eccessivo, eppure…). Ma non riesco a concepirli davvero come ruoli o compiti. Ho lavorato alcuni anni come PR e copywriter per diverse aziende. Ecco: quello era svolgere un ruolo.

Edizioni Hypnos presenta qui a Stranimondi in un’unica edizione la traduzione italiana delle tue due raccolte di racconti, con il titolo Lacerazioni, tradotto da Barbra Bucci e Elena Furlan.

Artwork by Ivo Torello


Questi racconti affrontano i conflitti interiori dei loro personaggi, esplorano le loro fragilità, il disfarsi di una realtà circostante, per condurci all’interno di un mondo visionario a metà tra follia e istinto. Si avverte profonda anche un’altra “lacerazione”, quella tra corpo (che spesso sanguina, che già diviene carcassa) e anima. Spetta poi al lettore il lavoro interpretativo delle suggestioni che ricava dalla lettura, anche se, come accade nelle migliori tradizioni, “In the end it is the mystery that lasts, and not the explanation”.

Anzitutto è giusta la mia lettura?

Certo, ogni lettura è corretta. La maggior parte di queste storie è anche piuttosto istintiva nel modo in cui è scritta. Ciascuna inizia sempre con un piccolo evento, un evento vero, aggiungerei. La prima storia che ho composto s’intitola Meannanaich, termine gaelico che indica il suono bizzarro delle ali del beccaccino quando compie la sua danza di corteggiamento. Il suo significato ha a che fare naturalmente con la storia, e lascio al lettore la scoperta di cosa sia, in ogni caso è stata il mio primo racconto breve (avevo scritto dei romanzi prima).

La storia mi è venuta in mente a seguito di qualcosa che avevo visto in Scozia. Si trattava davvero dell’inizio del processo immaginifico, che è pressoché inconscio, e dopo un po’ ho cominciato a dirmi: Ha forse a che fare con la cosa che ho visto? E si era fuso sia con il fatto del beccaccino, che mi era stato spiegato da un amico scozzese, sia con una passeggiata con lo stesso amico, che avevo fatto lungo la spiaggia in una serata davvero strana. E improvvisamente tutto questo aveva creato la condizione per il nascere della storia. Tutte le storie contenute in Lacerazioni hanno infatti il loro inizio nella realtà, e questa realtà viene poi abbracciata dall’immaginazione, e l’immaginazione inizia a creare cose intorno ad essa e si arriva ad un punto tale che diviene naturale per me farne una storia. Un po’ come il piccolo corpo estraneo che fa sì che l’ostrica produca una perla. Come se l’intero corpo della scrittrice, e non solo il cervello, fosse coinvolto nel processo di creazione della storia. In realtà, la maggior parte delle storie contiene anche una specie di… non ossessione, ma un filo conduttore forte riguardo al corpo: le parti del corpo, l’invasione del corpo, la deformazione del corpo. Forse è collegato al modo in cui penso di creare queste storie, nel mio corpo.

Un momento della presentazione a Stranimondi, insieme all'interprete  Selene Verri.

Possiamo dire che tu segua un istinto creativo quando scrivi più che un modello.

Sì, direi così. Se nulla accade, non scrivo. Ad esempio, non scrivo un racconto da due anni perché non è accaduto nulla di nuovo che potesse diventare una storia nel mio cervello.

Mi è piaciuto moltissimo il racconto Shioge, che ora mi viene subito in mente.

Sì, questo di nuovo è legato ad alcuni eventi “reali”. Ho visto qualcosa in Scozia, poi è accaduto un altro fatto, non in Scozia ma nella campagna francese. Quel tipo di cose di cui non sai se essere sicura. Ero in macchina con un amico, viaggiavamo lungo boschi e campi, e ad un certo punto abbiamo visto un po’ di persone intorno a delle pecore che sembravano molto malate. Era tutto così bizzarro perché molte di queste pecore sembravano chiaramente affette da qualche epidemia. Ma non abbiamo letto nulla in proposito sui giornali dopo. Dunque non eravamo certi di quel che avevamo visto. Però credo che si trattasse davvero di un’epidemia. Di nuovo: questo fatto è maturato in una storia su un pastore e le sue pecore, Shioge.

Questa malattia è solo nella mente del protagonista, e lui la rende reale.

Sì, anche, ma forse la malattia è vera. Non lo so. In ogni caso il lettore ha ragione, io do soltanto qualcosa da leggere, poi il lettore può pensare quello che vuole. E questo è anche il modo in cui io stessa leggo.

Pur nella grande varietà di ambientazioni, personaggi, toni, è possibile rintracciare nei tuoi racconti dei motivi e temi comuni, degli aspetti che ricorrono con forza, sia fisici che interiori, come ad esempio gli occhi (che consentono da un lato il “materializzarsi” all’esterno di pensieri, sogni, incubi, mostri, dall’altro, permettono di “trovare la strada”, entrare in contatto con altre anime, spiriti, mondi); la dimensione onirica e immaginifica e, legata a questa, la follia; l’interno che diviene esterno; l’incomunicabilità; la solitudine; la maternità, l’animalità selvaggia.

In che rapporto stanno questi motivi e temi con i personaggi dei tuoi racconti e come interagiscono tra loro?

Non saprei dirlo, perché, di nuovo, c’è molta istintività nel mio processo compositivo, dunque non lo so. Credo che si cerchi quel che si vuole cercare, in un certo senso. Se sei interessato, come lo sono io, agli “occhi” come figura – ho un’ossessione per gli occhi più di quanto non la abbiano altre persone – allora il lavoro del mio inconscio e del mio cervello mi fa vedere occhi tutto il tempo nelle mie storie anche se non li voglio. Ad esempio, sto pensando a due storie “gemelle”, Memorie dell’occhio e La mano veggente: queste due storie parlano del mio trisavolo vero, e quest’uomo, guarda caso, era un fabbricante di occhi artificiali.

C’era un segreto intorno a quest’uomo, che la mia famiglia ha scoperto soltanto qualche anno fa. Quest’uomo uccise la moglie e due dei suoi figli. La sua piccolina, l’unica a sopravvivere, non ne seppe mai nulla, perché al tempo degli omicidi aveva sei mesi, e la famiglia l’aveva portata lontano, in Corsica, il padre era originario di lì. Venne portata in un convento e là nessuno le disse cosa era accaduto alla sua famiglia. Le dissero solo che la madre era morta quando lei nacque e che suo padre era morto qualche anno dopo per il troppo bere. Non ha mai saputo di aver avuto dei fratelli, né che suo padre avesse ucciso tutti tranne lei.

Forse qualcuno dirà che c’è una parte del cervello della bambina che ha ricordato, e così quella conoscenza della storia è stata trasmessa a diverse persone nella famiglia ed ecco spiegato il mio interesse in cose terribili, nell’orrore, negli occhi… chi può saperlo? Questa è una di quelle coincidenze molto disturbanti, e le mie storie ne sono piene.



Stai lavorando su qualche nuovo progetto come autrice?

Sì, sto lavorando a due cose: una è un romanzo che immagino di scrivere da anni, ma è un processo molto lento, sono riuscita a scrivere la prima parte, ora devo scrivere la seconda e la terza e poi, a un tratto, mi sono accorta che alcune cose che stavo facendo al di fuori da questo progetto potevano rientrare anche nel romanzo, così sarà un romanzo in quattro parti. Non so esattamente che tipo di struttura avrà. Al momento sembra davvero che io sia in una cucina con molto pentole che bollono, e a un certo punto dovrò mescolare tutto insieme. Forse sarà un’enorme catastrofe, o forse qualcosa d’interessante.

Sto scrivendo anche un altro romanzo con un amico, lo scrittore William Charlton [che ha tradotto Darkscapes]. Abbiamo già scritto una storia di fantasmi insieme, Double. Ora siamo orientati verso qualcosa che è più simile a un horror cosmico.

È difficile scrivere insieme a un altro scrittore?

Non con lui perché siamo simili ma anche molto diversi. Scriviamo in modo completamente differente e questo lo rende più semplice. Se fossimo stati un po’ più simili, probabilmente sarebbe stato più noioso, più difficile, ci saremmo magari messi in competizione. Lui scrive molto, insegna Filosofia, ha molti interessi, è un narratore molto bravo, ha orecchio per i dialoghi, ne scrive di molto divertenti, diciamo che è molto dotato nel “settore del divertimento”. Siamo una specie di scrittori complementari. Anche lui scrive racconti, pubblicati dalla Tartarus Press.

Questi sono i due progetti. In realtà ce n’è un altro, un racconto horror breve e leggermente sopra le righe. Non so come gestire tutto allo stesso tempo, ma devo fare tutte queste cose. È passato molto tempo da quando ho completato qualcosa, quindi questa è la giusta direzione per tornare in campo.

Come traduttrice utilizzi un altro nome, Anne-Sylvie Homassel.
C’è un motivo particolare nel sottolineare questa distinzione professionale con una distinzione onomastica?

Anne-Sylvie Homassel è il mio vero nome. Sì, credo di aver voluto fare una distinzione tra le due me, la scrittrice e la traduttrice. Non volevo però che la distinzione fosse troppo ampia, e infatti “Salzman” è la traduzione di “Homassel”; non so se sia davvero così, l’origine del nome è oscura, “Saltman” è una sorte di falsa etimologia. Descrive però l’alterità, ideale quando penso a me come scrittrice. Sono la stessa persona ma leggermente diversa, quindi va bene avere nomi leggermente diversi.

Quanta parte hanno avuto nella tua formazione come autrice le tue traduzioni di autori quali Mary Shelley, Lord Dunsany, Fritz Leiber, Arthur Machen, Robert Louis Stevenson, H.G. Wells, Wilkie Collins, Jack London, Oliver Onions e Thomas Ligotti, per citarne solo alcuni?

Enorme, credo. Probabilmente le prime, la prima traduzione è forse la più importante di tutte le altre.

La prima è stata quella di Fritz Leiber?

La prima, la vera prima traduzione non è stata quella di Fritz Leiber (ma la sua è stata la prima traduzione di narrativa pubblicata). Prima ho tradotto un saggio filosofico, che è stato la mia prima vera traduzione, di George Berkeley, uno scrittore davvero raffinato, estremamente interessante, e connesso anche con la visione e con l’“occhio”. Un’altra coincidenza interessante.

Poi ho tradotto un altro autore che non è nella lista: Max Beerbohm, che potrebbe essere quasi un modello, il suo inglese è terribilmente sofisticato, arguto e allo stesso tempo così preciso. Naturalmente, gli autori che traduci ti insegnano anche dei trucchi, che puoi applicare o meno, ma comunque ti nutrono. Se traduci tanto, a volte non avverti molto il bisogno di scrivere, e questo può essere un po’ pericoloso. Se fai entrambe le cose, scrivere e tradurre, devi bilanciare le due attività. Non lasciare troppo che gli scrittori che stai traducendo ti invadano, prova ad imparare da loro e cerca di esser loro fedele, così come a te stesso. Naturalmente impari anche da chi scrive nella tua stessa lingua.

A volte diviene difficile ascoltare la propria voce?

Forse hai meno energie per la tua scrittura, ecco perché devi bilanciare e, di tanto in tanto, devi fermarti. Devo smettere di tradurre cose che mi coinvolgono e fare magari una traduzione più leggera, una traduzione che non sia troppo difficile o magari un saggio invece che narrativa. Ad ogni modo nel complesso è sempre andato tutto bene. I vantaggi sono davvero maggiori rispetto agli svantaggi. Penso di aver imparato moltissimo, ad esempio, da Lord Dunsany, o da Beerbohm, anche nel modo in cui narrare. Tutti questi autori sono narratori. Ma naturalmente apprendi molto anche come lettore. Leggere libri rimane il modo migliore di mantenere la tua lingua, non necessariamente la tua immaginazione nel modo in cui ho descritto il processo immaginifico. Molto semplicemente: leggere e tradurre ti insegnano come usare le parole.

Hai tradotto molte opere appartenenti alla letteratura fantastica in lingua inglese. Qual è la situazione attuale invece in Francia per quel che riguarda questo ambito? Vi è come in Italia una vivace nicchia – seppur con le sue difficoltà – come ad esempio mostra questo evento? 

Sì, ne ho parlato con un bel po’ di gente qui. Spero che il fantastico e il weird siano ora tornati più in campo. La Francia era un paese in cui la letteratura fantastica, la narrazione fantastica, era molto forte (Maupassant, Erckmann-Chatrian, Nodier, Nerval, Alexandre Dumas, Gautier, e anche molte donne erano del settore, anche attraverso il Simbolismo, la musica, la pittura). D’improvviso si ha quest’atmosfera estremamente nutritiva per la letteratura fantastica. E si ha l’impressione che tutto svanisca dopo la Prima guerra mondiale, non proprio svanito ma retrocesso a nicchia. Questa realtà ha abbandonato l’ambito letterario, è stata espulsa dalla letteratura mainstream ed è divenuta una nicchia, fondendosi inoltre con lo sviluppo dell’horror americano.

All’improvviso senti dire: “È roba straniera, è commerciale, non è letteratura di qualità”. Questa è la situazione con cui avevamo a che fare dagli anni Sessanta in poi, la letteratura fantastica era piuttosto marginalizzata, ed era apparentemente cattiva letteratura. Penso però che anche allora fosse buona letteratura, è ancora buona letteratura. Si trattava solo di un modo in cui le case editrici o il pubblico in generale o i critici letterari volevano organizzare il settore. Abbiamo ancora un po’ di quella distinzione, così abbiamo la grande littérature, o letteratura mainstream, che non è necessariamente così grande, e abbiamo il genre, ma non è neanche compreso come tale. Ad esempio, uno degli autori che vende di più in Francia è uno scrittore di letteratura fantastica, Bernard Werber. Qualcuno potrebbe dire: “Sì, ma è letteratura commerciale. Puoi farci il nome di un bravo scrittore francese specializzato in fantastico o weird?” Ce ne sono diversi. Qualcuno come Antoine Volodine, che si ritiene sia mainstream, proviene dalla science-fiction e quel che scrive è fantastico in sé, ha creato questo mondo tutto suo del post-esotismo, inventando questo concetto perché non vuole essere compreso all’interno di un genere limitato e così ha creato un genere di cui è l’unico rappresentante. È uno dei migliori scrittori che abbiamo. C’è anche Céline Minard, che può muoversi all’interno di generi diversi, è un’amante del fantastico e sa scrivere narrativa fantastica. Ci sono anche molti giovani scrittori, ora mi viene in mente  Romain Verger, che potresti far rientrare nel mainstream ma che per argomenti e per il modo in cui scrivono appartengono invece al fantastico o al weird. Il pubblico non ha mai fatto troppa distinzione, e il mondo dell’editoria sta riflettendo su questo aspetto e sta rendendo il fantastico e il weird non così estraneo. Penso che stiamo tornando a una situazione più interessante, dove ancora abbiamo nicchie, ma i limiti tra di esse sono un po’ più vaghi.

Grazie ancora a Anne-Sylvie Salzman!





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